L’esplosione demografica africana avviene in un contesto politico instabile, in un continente disomogeneo, diviso in 54 paesi governati da leader sovente dispotici, spesso corrotti e in una situazione economica che non permette una ricchezza interna e che vale solo il 3% del PIL mondiale. I suoi cittadini hanno, in media, un reddito pro capite di circa 5 dollari al giorno, ma la curva di concentrazione della ricchezza è altissima; la disuguaglianza all’ordine del giorno. Il 60% della popolazione africana è composta da giovani, spesso disoccupati, che hanno frequentato le scuole, che parlano due lingue, che usano lo smartphone e sono informati sul mondo.
Persone che non hanno più voglia di stare in silenzio, che si aspettano qualcosa oltre alla fame.
Di fronte a questa giovane popolazione, l’Africa non ha piani: non è in grado di offrire opportunità se non modeste; le ricchezze naturali, spesso sprecate o svendute, non fanno intravedere grandi iniziative legate all’occupazione giovanile; infine l’avanzata della robotica e la conseguente automazione del lavoro di cui non hanno neppure sentore peggioreranno di molto la situazione.
Thomas L. Friedman, il famoso giornalista del NY Times, nel suo ultimo libro “Thank you for being late”, racconta una storia emblematica che ha appreso in Niger, nel 2016, dove si era recato in un villaggio per un servizio sull’agricoltura per il National Geographic e dove venne accolto da una famiglia fatta di sole donne, anziani e bambini. I giovani o gli uomini validi se ne erano tutti andati. Non era stato a causa di malattie – racconta Friedman – la terra era ormai troppo arida e gli uomini erano migrati a cercare lavoro, in Africa o fuori. Avevano tutti detto loro che emigrare era molto difficile e pericoloso, ma quando – racconta – non hai neppure “i soldi per una aspirina per la madre malata, il rischio sei costretto a correrlo”.
Questa è la prospettiva di uno dei milioni di giovani che andranno a comporre le percentuali di crescita demografica dei prossimi anni in Africa: a un ragazzo in età lavorativa basterà spostare lo sguardo verso altri paesi africani oppure verso l’Europa, per trovare i confini di Italia, Francia, Spagna, paesi conosciuti come potenze mondiali. Difficile non pensare di mettersi in mare, difficile non cercare di raggiungere uno di questi paesi sicuramente più ricchi e che hanno bisogno di migranti, forse più adatti ad offrire una chance.
I barconi e i camion carichi di migranti sono il simbolo che collega due lembi di terra geograficamente così vicini, ma culturalmente così distanti.
La situazione nei paesi europei non è semplice come immaginata da chi la guarda da lontano: Germania, Spagna, Francia, Italia hanno partecipato al banchetto della globalizzazione, guadagnandoci in un primo tempo, ma successivamente subendone le prime conseguenze negative. Con il risultato di avere creato un forte malcontento nelle classi medie, che ha visto diminuire il proprio reddito. La disuguaglianza quindi è aumentata e si è interrotto un circuito virtuoso che fino a qualche anno fa funzionava ampiamente: per la prima volta ogni figlio non starà meglio del padre, anzi ad oggi, sono i genitori stessi ad aiutare i figli a rimanere a galla, non senza fatica, o per lo meno non senza dar fondo ai risparmi della famiglia.
In Europa si avverte un’aria di malcontento diffuso, diverso da paese a paese, ma diffuso: su queste braci di delusione soffia la politica.