Il reddito pro capite asiatico (e soprattutto cinese) è cresciuto di quasi 15 volte negli ultimi 20 anni: dai miserabili 600 dollari annui ai circa 9.000 di oggi. Tre miliardi di persone stanno meglio, pur nelle loro disuguaglianze. La crescita ha permesso alla Cina di passare da paese esportatore a paese con forti consumi interni. La crescita parossistica di Alibaba conferma.
Nello stesso lasso di tempo, l’altra parte del mondo non è cresciuta in modo similare; anzi, tutto il mondo è cresciuto poco. Come vasi comunicanti, dunque: se una parte cresce – l’Asia- l’altra scende.
E l’altra parte è rappresentata dai redditi fissi dei paesi cosiddetti avanzati, quasi tutti occidentali e “bianchi”: Usa, Europa, Russia.
L’Africa è stata sempre ai margini della globalizzazione: valendo solo il 2,3 % del PIL mondiale (meno della sola Francia), il continente è caratterizzato un’irrilevanza economica non indifferente.
Rilevanza ne avrà in futuro, ma più per sé stessa che per il gioco mondiale. A livello globale, infatti, potrà solo portare scompiglio, esportare umanità dolente e rigurgiti terroristici, spinti altrove dall’unica vera crescita africana: la demografia, che passerà da 1,3 a 4,3 miliardi nel giro di soli 80 anni.
Quindi torniamo a chi ha i soldi: l’occidente. Qui la gente è incazzata.
Disuguaglianza in aumento, redditi fissi in diminuzione, futuro incerto. I figli stanno peggio dei padri e sembra che la politica non se ne sia accorta. Oggi balbetta. Trump, Brexit, 5 stelle, Orban: tutti figli di questo film.
All’improvviso la gente ha capito di non avere più un futuro certo e ha protestato.
Nel passato, i baby boomers, usciti dalla guerra, hanno avuto davanti a sé 70 anni privi di veri problemi, in cui tutto avveniva all’interno dei loro paesi, fuori dalla globalizzazione. C’era la cortina di ferro e solo gli Usa andavano in giro per il mondo a vendere i loro prodotti (la Coca Cola ne è l’esempio tipico).
Tutto cresceva e saliva nei singoli paesi: la gente guadagnava, faceva progetti, comprava case. Diventava classe media e, negli USA ad esempio, rincorreva il sogno americano. Insomma, 70 anni di felicità.
Ma, a un certo punto, Deng ha detto: “Viva il socialismo di mercato!”. Le aziende, avide, hanno subito aderito, spostando le loro produzioni in Cina: produrre non costava nulla e i cinesi erano anche grandi lavoratori.
Quindi più soldi per le aziende, più soldi per i cinesi.
Ed ora eccoci qui: tutti incazzati e senza un futuro. E la politica? O rappresenta lo scontento o balbetta. Ma anche chi vuole rappresentare lo scontento non avrà risposte e soluzioni.
E quindi? Quindi per ora la globalizzazione si ferma. Punto. È morta! Tutti cercano di stare chiusi in casa propria: da “America first” a “Padroni a casa nostra”.
Ma, in futuro, con i soli consumi interni, nessuno potrà più crescere: problemi quali insicurezza sociale e redditi meno sicuri saranno all’ordine del giorno. Si spera quindi in una nuova ripresa della globalizzazione, più ordinata e meno penalizzante.
Ma avverrà?
Molto difficile. Anzi, impossibile: due sfide altrettanto dure si affacciano all’orizzonte, nell’impreparazione di tutti (della politica in special modo): la nuova automazione tecnologica – che definirei, per semplificazione, robotica – che, combinata con l’intelligenza artificiale e il machine learning, ucciderà il lavoro; e la crescita demografica del gigante africano, che avanzerà a dismisura, accompagnata da una perenne mancanza di soldi.