Ecco una domanda “spinosa”, alla quale non è facile trovare una risposta semplice ed esaustiva.
Secondo Dambisa Moyo, la giovane economista di cui abbiamo già parlato in precedenza, è arrivato il momento di interrompere donazioni a perdere, a favore di meccanismi più virtuosi e funzionali di sostegno alla crescita del continente Africano: «Gli aiuti a pioggia – afferma Moyo – significano solo sottrarre risorse dalle tasche dei poveri nei paesi ricchi per infilarle in quelle dei ricchi dei paesi poveri». La sua ricetta? Sviluppare relazioni di commercio e lavoro con l’Africa, così come sta facendo la Cina: infrastrutture contro soldi, risorse contro aiuti, know-how contro denaro contante.
Certo, anche in questo caso non sarà facile invertire la rotta.
Secondo quanto riportato nel report “Development Aid at a Glance”, tra i primi dieci donatori al mondo per quantitativi erogati troviamo Usa, Regno Unito, Francia, Germania, Giappone e Paesi nordici: tutti paesi che hanno interessi economici e politici consolidati in terra africana. Da soli, i primi dieci top donors raccolgono il 90% del totale donato all’Africa. È difficile non considerare come questi soldi possano essere frutto di una volontà politica di influire su paesi che ricevono, solo in aiuti, somme che vanno a costituire tra il 5 e il 20% del loro PIL annuale.
Ci sono letture anche più ciniche, che documentano come questo flusso di denaro che arriva in Africa ritorni all’estero con gli interessi: un viaggio di andata e ritorno molto conveniente.
Comunque siano trattati questi flussi di denaro, gli aiuti non possono né potranno terminare. Ed è proprio questa la riflessione sulla quale abbiamo costruito il nostro ragionamento.
Se tra i vari scenari che analizzeremo rispetto al futuro dell’Africa prevarrà quello peggiore, il continente avrà bisogno molto più di semplici fondi pari al 5% del suo PIL: avrà piuttosto la necessità di un vero e proprio piano “Marshall”, rinnovato e adeguato alle dinamiche del continente.