Una mano si sta allungando sull’Africa, quella della Cina.
Mentre gli Usa, successivamente alla caduta del muro di Berlino, cercavano di rimettere insieme i cocci dell’Europa dell’est e di risolvere i conti in sospeso con i vecchi alleati, la Cina si dedicava al continente africano. Frequentava i suoi presidenti, li assecondava con visite e inviti istituzionali, li sosteneva e li difendeva, anche quando non si sarebbe dovuto e in sedi ufficiali.
In questo modo la super potenza d’oriente è diventata uno dei maggiori interlocutori di tutto il continente, alleato politico di molte nazioni africane, riuscendo così a esercitare un’influenza strategica su diverse aree di interesse: il Sudan e le sue riserve petrolifere; Congo e Mozambico, nazioni ricche di materie prime; Zambia, con i suoi giacimenti di rame… E la lista potrebbe continuare.
In alcuni Paesi la Cina esercita un vero e proprio ruolo di potere, in altri si impegna a stringere accordi economici costruendo infrastrutture e fabbriche, estraendo minerali e sfruttando terreni a fini agricoli. Compra terre e le utilizza per produrre alimenti utili al suo mercato interno. Questo può essere considerato, a seconda di come vuol essere interpretato il fenomeno a livello politico, come uno scambio tra partner economici, o come una delle tante forme di land grabbing, l’accaparramento di terre ad opera delle grandi potenze estere, di cui abbiamo parlato precedentemente.
Ci sono pensatori, come l’economista zambiana Dambisa Moyo, che considerano l’approccio della Cina come l’unica via praticabile per garantire un futuro all’Africa. Nel suo ultimo libro “Winner takes all”, Dambisa Moyo sostiene che le donazioni e gli aiuti inviati in Africa dal resto del mondo sono «un’elemosina che, nella migliore delle ipotesi, costringe l’Africa a una perenne adolescenza economica, rendendola dipendente come da una droga. E nella peggiore, contribuisce a diffondere le pestilenze della corruzione e del peculato, grazie a massicce iniezioni di credito nelle vene di Paesi privi di una governance solida e trasparente, e di un ceto medio capace di potersi reinventare in chiave imprenditoriale. L’alternativa è chiara: seguire la Cina, che negli ultimi anni ha sviluppato una partnership sofisticata ed efficiente con molti Paesi della zona sub-sahariana. Il colosso cinese, che non deve fare i conti con un passato criminale di colonialismo e schiavismo, è infatti in grado di riconoscere l’Africa per la sua vera natura: una terra enorme ricca di materie prime e con immense opportunità di investimento».
La tesi della Moyo è per il momento la più accreditata e la Cina sta diventato un vero e proprio fornitore di aiuti in modo del tutto nuovo rispetto al passato. In particolare, interagisce con l’Africa seguendo tre diverse modalità: accordi tra governi; interventi diretti tra imprese private o tra imprese e governi locali; cittadini cinesi che lasciano il loro paese emigrando in Africa.
Sotto il profilo statale, la Cina ha messo a punto un sistema di “bartering”, una sorta di scambio politico: da una parte la Cina si impegna a coprire le spese di costruzione di porti, ferrovie e strade, mentre dall’altra si assicura una costante fornitura di materie necessarie alla sua crescita, dai carburanti ai minerali. È un sistema win win: da un lato la banca cinese export-import e altre importanti istituzioni finanziarie, sempre controllate dallo Stato, negoziano progetti di finanza comune per la costruzione delle infrastrutture a prezzi competitivi, avvalendosi prevalentemente di società cinesi, di materiale cinese e spesso di operai cinesi. Dall’altro lato lo Stato negozia gli acquisti delle materie prime. Non ultimo, lavorando in Africa, il gigante asiatico può utilizzare anche standard qualitativi più bassi.
Come sottolinea Howard French, pluripremiato giornalista del New York Times, nel suo libro “China’s second continent – How a million migrants are building a new empire in Africa”, i contratti di costruzione su territorio africano sono ormai un terzo del totale degli affari di Pechino.
Si tratta, comunque, di una partita in cui vincono tutti: vince la Cina come Stato che si impossessa a buon prezzo delle materie prime; vincono le sue imprese che si aggiudicano i lavori; vince l’Africa che ottiene a buon prezzo le strade e i porti di cui ha urgente bisogno e vende, in qualche caso decentemente, le sue materie prime.
Il giornalismo e la politica si sono espressi su questo aiuto interessato all’Africa da parte della Cina: le fazioni si sono divise tra i detrattori, che insistono su una nuova forma di colonialismo, e i fautori, che inneggiano a queste forme di aiuto definite non a pioggia, tra i quali troviamo la scrittrice Dambisa Moyo.
C’è una terza Cina che sta arrivando in Africa, a cui il giornalista Howard French ha dedicato il suo libro: «agricoltori, imprenditori edili di piccole dimensioni, commercianti, dottori, insegnanti, contrabbandieri, prostitute», milioni di cittadini cinesi che stanno emigrando.
French racconta parecchie storie che ben rappresentano l’intraprendenza cinese in un continente che inizia a porre alcuni freni all’avidità altrui: tanti abitanti della Cina interna, che non hanno ancora raggiunto il benessere desiderato, si convincono sempre più che il continente africano possa rappresentare per loro una nuova terra da occupare, colma di ricchezze e occasioni da sfruttare. Il giornalista ne riporta difficoltà e successi, a testimonianza di come l’Africa possa essere una terra che sa ripagare le fatiche, sempre che vi si investa l’energia giusta e la spregiudicatezza necessaria.