L’Africa è sempre rimasta fuori dal banchetto della globalizzazione: stiamo parlando di un gigante dal punto di vista territoriale (la sua superficie occupa il 30% del pianeta) ma di una creatura minuscola dal punto di vista economico. L’intero continente vale, infatti, il 3% del PIL mondiale (più o meno, come la sola Italia).
La crescita africana che ha caratterizzato gli ultimi anni, ha interessato principalmente le aree ricche di risorse e quelle politicamente rilevanti, lasciando ai margini il resto del continente.
L’unico paese a intuire da subito le grandi potenzialità del territorio è stato la Cina: mentre il resto del mondo si concentrava sulle dinamiche della Guerra Fredda e, successivamente, del disgelo, il gigante asiatico investiva in terre ricche di risorse, acquistando prodotti e sovvenzionando la costruzione di infrastrutture e l’apertura di aziende.
Purtroppo, l’Africa, pur essendo un continente “in movimento”, possiede alcuni potenti freni, che tendono a ostacolare il suo sviluppo o la possibilità di fare il famoso salto verso una crescita reale e globale.
Primo fra tutti, la politica (un’altra delle nostre evidenze esplosive): in molti paesi africani, la classe politica non riesce a incidere su programmi sociali di rilancio del paese, occupata come è a difendere l’oligarchia di pochi. In molti paesi, più o meno la metà del continente, dichiarati democratici, la politica, anche se è formalmente moderata e occidentale nei toni, nel sistema elettivo e nei modi, è come una partita di calcio con i suoi fan e i tifosi della squadra, più che uno strumento di creazione di consenso per una piattaforma riformista.
Vince una squadra, prende il piatto, ma perde il Paese.
Grazie ai giovani elettori, si cominciano a intravedere deboli segnali di risveglio e qualche possibilità di una via di svolta.
Sembra che non parlino più di etnie, ma di socialità ed occupazione.